Disciplina normativa
L’art. 1131, comma 2, c.c. aggiunge che l’amministratore «può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio».
Interpretazione giurisprudenziale
Nel ricostruire la portata di questa disposizione, deve subito farsi riferimento a Cassazione, sez. un., 6 agosto 2010, n. 18331. Questa sentenza ha ritenuto che l’amministratore convenuto possa certamente costituirsi autonomamente in giudizio, così come impugnare la sentenza sfavorevole al condominio, è ciò nel quadro generale di tutela urgente di quell’interesse comune che è alla base della sua qualifica e della legittimazione passiva di cui è investito; non di meno, l’operato dell’amministratore deve poi essere sempre ratificato dall’assemblea, in quanto unica titolare del relativo potere. La ratifica assembleare vale a sanare retroattivamente la costituzione processuale dell’amministratore sprovvisto di autorizzazione dell’assemblea, e perciò vanifica ogni avversa eccezione di inammissibilità, ovvero ottempera il rilievo ufficioso del giudice che abbia all’uopo assegnato il termine ex art. 182 c.p.c. per regolarizzare il difetto di rappresentanza. Tale orientamento, infine prevalso nel pensiero dei giudici, nega che l’amministratore sia titolare di una legittimazione processuale passiva illimitata ex lege (ovvero, della titolarità di una “difesa necessaria”) per le azioni concernenti le parti comuni dell’edificio. La finalità dell’art. 1131, comma 2, c.c. sarebbe, in pratica, limitata a facilitare i terzi nell’evocazione in giudizio di un condominio, consentendo loro di notificare la citazione al solo amministratore anziché a tutti i condomini; dovendo poi l’amministratore munirsi di autorizzazione dell’assemblea per resistere nella lite. Quel che occorre per il perfezionamento della notificazione al condominio non può dirsi automaticamente bastante pure per la piena costituzione in giudizio dello stesso. La decisione se resistere alla domanda o se impugnare la sentenza sfavorevole non può competere all’amministratore, in quanto le facoltà di iniziativa processuale e le scelte di conduzione del procedimento appartengono alla parte in senso sostanziale, di cui è espressione unicamente il collegio dei condomini. In pratica, l’autorizzazione dell’assemblea a resistere in giudizio si risolverebbe in un mandato all’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, per cui l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius.
L’ambito applicativo di Cassazione, sez. un., 6 agosto 2010, n. 18331 (circa la regola della necessità dell’autorizzazione o della ratifica assembleare per la costituzione in giudizio dell’amministratore) va certamente riferito soltanto alle cause che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c., e perciò accordando all’amministratore l’autonoma legittimazione a resistere all’impugnazione di una delibera assembleare da parte di un condomino, o a proporre opposizione al decreto ingiuntivo richiesto nei confronti del condominio dal terzo che ne sia creditore in forza di obbligazione assunta dal medesimo amministratore per dare esecuzione a delibere assembleari, oppure per erogare le spese occorrenti ai fini della manutenzione delle parti comuni o dell’esercizio dei servizi condominiali, senza intervento alcuno dell’assemblea.
Parimenti, si è affermata la legittimazione passiva dell’amministratore di condominio, ex art. 1131, comma 2, c.c., rispetto ad ogni azione volta alla determinazione giudiziale di tabelle millesimali che ripartiscano le spese in applicazione aritmetica dei criteri legali giacché, rientrando l’approvazione di tali tabelle nella competenza gestoria dell’assemblea, si versa in presenza di controversia riconducibile alle attribuzioni riconosciute allo stesso amministratore dall’art. 1130 c.c. ed ai correlati poteri rappresentativi processuali, senza alcuna necessità di litisconsorzio di tutti i condomini.
Si è talvolta sostenuto che la deliberazione dell’assemblea di ratifica della costituzione in giudizio o della proposizione di gravame ad opera dell’amministratore opera soltanto per la rispettiva fase del procedimento e non sana, quindi, la mancanza della preventiva autorizzazione assembleare concernente i precedenti gradi. Questa limitazione al grado pendente dell’effetto sanante della ratifica assembleare contrasta, però, con i traguardi giurisprudenziali circa l’ambito della sanatoria del difetto di rappresentanza processuale della parte, ex art. 182, comma 2, c.p.c., la quale opera in qualsiasi fase e grado del giudizio e con efficacia ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da preclusioni o decadenze processuali.
Qualora, invero, il giudizio venga promosso da (o vi si costituisca) un amministratore di condominio privo di poteri rappresentativi, per essere la causa esorbitante alla sue attribuzioni ex art. 1130 c.c., il vizio che ne consegue non concerne né la legittimazione ad agire né lo jus postulandi, ma esclusivamente la capacità processuale in quanto relativo ad un difetto di legittimazione processuale. Tale vizio può perciò essere sanato dall’assemblea in ogni stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti dall’amministratore, ivi compresa la procura che questi abbia rilasciato ad un difensore. Sicché tanto la spontanea ratifica assembleare quanto quella sollecitata doverosamente dal giudice, assegnando termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c. al condominio che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, interviene con effetti ex tunc. L’inammissibilità dell’impugnazione proposta dall’amministratore del condominio per mancanza del nulla osta dell’assemblea, in controversia non rientrante tra quelle per le quali l’organo amministrativo sia autonomamente legittimato ad agire ai sensi degli artt. 1130 e 1131 c.c., rimane quindi preclusa anche da una ratifica del suo operato che il collegio dei partecipanti deliberi prima ancora del rilievo della controparte, o immediatamente dopo lo stesso, prima ancora che il giudice fissi un termine per la regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c.
La mancanza dell’autorizzazione o della ratifica dell’assemblea condizionano, peraltro, la validità della costituzione dell’amministratore, ma non l’efficacia diretta verso il condominio della sentenza emessa nei confronti di quello.
Opinioni dottrinali
In dottrina, si è osservato da alcuni come questo ormai stabilizzato indirizzo giurisprudenziale, che subordina la legittimazione processuale passiva dell’amministratore alla volontà dell’assemblea, dovrebbe indurre, per coerenza, ad abbandonare ogni tesi che individua nell’amministratore stesso un ufficio privato o una rappresentanza necessaria ex lege, ed a propendere convintamente per l’assimilazione del rapporto tra amministratore e condominio ad un mandato collettivo, con conseguente ampia derogabilità della disciplina legale dall’autonomia privata, laddove di rappresentanza necessaria dell’amministratore, insuscettibile di limitazioni derivanti da deliberazione dell’assemblea, si legge ancora molto spesso nelle stesse nostre sentenze.
È difficile, però, contrastare chi insiste nel far notare come la lettera dell’art. 1131 c.c. non dia conforto alla sussistenza di tale preteso obbligo per l’amministratore di munirsi in ogni caso della previa delibera autorizzativa dell’assemblea ai fini della costituzione in giudizio: anzi, il dovere dell’amministratore di fornire «senza indugio notizia all’assemblea dei condomini» dell’insaturazione di giudizi nei confronti del condominio, che esorbitino dalle sue attribuzioni sostanziali (art. 1131, comma 3, c.c.) farebbe presupporre una costituzione in giudizio già avvenuta. La rappresentanza processuale dell’amministratore è, piuttosto, un effetto direttamente discendente dalla legge, non derogabile neppure dalla volontà dei condomini espressa nel regolamento di condominio (art. 1138 c.c.) e munita di garanzia normativa anche in ipotesi di inerzia dell’assemblea.
Gran parte dei commentatori ha sempre rimarcato come la legittimazione passiva per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio, riservata dall’art. 1131 all’amministratore, rivelasse una portata generale, non limitata, a differenza della legittimazione attiva, alle attribuzioni istituzionali di quello ex art. 1130 c.c. Tale differente ampiezza ontologica tra rappresentanza processuale attiva e rappresentanza processuale passiva sarebbe, peraltro, ben comprensibile, alla luce delle esigenze di semplificazione dell’attuazione del contraddittorio in favore dei terzi che intendano agire verso il condominio. Ciò spiegherebbe, del resto, il senso dell’art. 65 disp. att. c.c., secondo il quale, ove manchi, “per qualsiasi causa” il “legale rappresentante dei condomini” chi intenda «iniziare o proseguire una lite contro i partecipanti a un condominio può richiedere la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 80 del codice di procedura civile». Sarebbe poi conseguente che dalla costituzione in giudizio di tutti i singoli partecipanti discenda l’estromissione dell’amministratore, per sopravvenuto difetto di legittimazione passiva; se, invece, la causa dovesse essere instaurata nei confronti, oltre che dell’amministratore, di alcuni soltanto dei condomini, la rappresentanza del primo resterebbe indispensabilmente limitata agli altri condomini. In verità, questa assoluta fungibilità tra la legittimazione processuale dell’amministratore e quella dei singoli condomini, nel senso che questi ultimi, ove tutti formalmente costituiti in proprio in giudizio, possano rendere superflua la rappresentanza del primo può davvero ravvisarsi solo nelle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche azioni personali, ove incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ogni; ma non può ammettersi la legittimazione alternativa individuale dei singoli condomini relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un bene o un servizio comune, bensì la gestione di esso, ovvero l’impugnazione di deliberazioni dell’assemblea, in quanto intese a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, nelle quali non c’è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più condomini, bensì con un interesse direttamente collettivo e solo mediatamente individuale.
In una prospettiva, allora, si osserva come rispetto alle questioni attinenti alla condominialità, l’amministratore si atteggia come “rappresentante legale”, il cui munus è espresso da una disciplina inderogabile a tutela dei terzi, pur essendo rappresentante dei “partecipanti” e non del “condominio” in quanto distintamente tale. Altrimenti, l’amministratore di condominio viene guardato come ufficio di diritto privato, il quale svolge una rappresentanza di interessi, piuttosto che di volontà, ovvero rappresentanza dell’organizzazione condominiale in vista dell’affermazione dell’interesse collettivo, e non rappresentanza plurima dei singoli partecipanti, sicché l’indistinta legittimazione passiva ex art. 1131, comma 2, si spiegherebbe come strumento di “difesa necessaria” della parti comuni dell’edificio.
Conseguenze della mancata autorizzazione assembleare
Sotto un profilo più pratico, si assume che in caso di mancata ratifica della costituzione dell’amministratore da parte dell’assemblea, sarebbe quest’ultimo a dover sopportare il compenso dell’avvocato nominato nonché e le spese processuali avversarie. La provocazione appare suggestiva ma probabilmente è in parte infondata. Allorché, invero, un amministratore di condominio assuma l’iniziativa di stipulare un contratto (quale può essere, appunto, il contratto di patrocinio con un avvocato per conto del cliente “condominio”), senza dotarsi, ove gli occorra, dell’approvazione dell’assemblea, o della successiva ratifica di questa, il terzo contraente non vede certamente conclamato l’obbligo dei singoli condomini di partecipare alle spese derivanti dall’esecuzione di quel contratto, ma neppure quel terzo può dolersi dell’eccesso di potere rappresentativo perpetrato dall’amministratore, giacché i limiti desumibili dagli artt. 1130 e 1131 c.c. sono posti nell’esclusivo interesse del condominio.
Viceversa, ove l’amministratore di condominio si costituisca in giudizio senza i necessari presupposti e poteri, egli ben può essere condannato in proprio al rimborso delle spese giudiziali, assumendo la qualità di parte ai fini della relativa pronunzia. L’art. 94 c.p.c. configura, infatti, una responsabilità processuale dei rappresentanti e prevede la loro condanna, eventualmente in solido con la parte rappresentata, nei confronti dell’avversario vincitore. La condanna personale alle spese di chi rappresenta la parte in giudizio è, peraltro, condizionata al concorso di gravi motivi che il giudice deve pur sempre individuare specificamente nella loro concreta esistenza, identificandoli o con la trasgressione a quel dovere di probità e lealtà, imposto alle parti dall’art. 88 c.p.c. ed espressamente richiamato dall’art. 92 c.p.c., ai fini del carico delle spese processuali, o con la mancanza di quella normale prudenza che, secondo il disposto dell’art. 96, comma 2, c.p.c., caratterizza la responsabilità aggravata della parte.