Con la sentenza n. 1249/2023, il Tribunale di Pisa ha affrontato la questione, cui ha ritenuto di dare risposta negativa, concernente la possibilità di accordare tutela risarcitoria all’amministratore di condominio che si sia visto negare il rinnovo dell’incarico alla scadenza.

Nella fattispecie concreta, una società, nella veste di amministratrice di condominio ormai cessata dall’incarico, aveva convenuto in giudizio il condominio medesimo, domandandone la condanna, oltreché al pagamento del compenso maturato e non corrisposto, al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del mancato rinnovo dell’incarico gestorio.

Il giudice pisano, anzitutto, richiama l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale “l’amministratore di condominio, in ipotesi di revoca deliberata dall’assemblea prima della scadenza del termine previsto nell’atto di nomina, ha diritto […] al risarcimento dei danni, in applicazione dell’art. 1725, comma 1, c.c., salvo che sussista una giusta causa” (così Cass., sez. II, 19.3.2021, n. 7874).

Evidenzia poi che nella delibera assembleare di nomina della società non figurava un’espressa indicazione della durata dell’incarico: ciò che, a suo avviso, avrebbe determinato la piena operatività del termine annuale di durata fissato dalla legge.

Riconosce quindi che la successiva nomina di un nuovo amministratore da parte dell’assemblea condominiale aveva importato il venir meno dell’incarico gestorio attribuito alla società attrice. Essendo però la nuova nomina intervenuta alla scadenza dell’anno di mandato, si sarebbe trattato qui non già di revoca, ma di mancato rinnovo dell’amministratrice.

Proprio valorizzando una tale circostanza, il giudice nega che possa trovare applicazione nel caso di specie l’orientamento pretorio sopra evocato sulla risarcibilità del danno da ingiustificata revoca ante tempus dell’amministratore, e rigetta allora, in parte qua, la domanda spiegata dalla società attrice.

Molteplici sono gli spunti di riflessione offerti dalla pronuncia in commento.

In primo luogo, si può segnalare che la sentenza de qua, laddove valorizza il silenzio serbato dalla delibera di nomina in merito alla durata dell’incarico conferito, sembra muovere dalla premessa che la disciplina normativa dettata dall’art. 1129, comma 10, c.c. abbia carattere meramente suppletivo: sia, cioè, una disciplina destinata a operare solo in difetto di una diversa regolamentazione pattizia, che nel caso di specie, appunto, mancherebbe.

Un simile passaggio motivazionale intercetta, allora, la questione se, e in quali limiti, sia consentito alle parti di concordare una disciplina diversa e derogatoria rispetto a quella prevista dalla legge in punto di durata dell’incarico di amministratore di condominio.

Il tema è invero controverso. In questa sede sia sufficiente rilevare che è diffusa tra gli interpreti una posizione restrittiva, che, muovendo dal disposto di cui all’art. 1138, comma 4, c.c., esclude in radice la possibilità di una deroga pattizia alla disciplina legale sulla durata dell’incarico gestorio. Si registrano, però, anche opinioni di segno diverso, che riconoscono la validità di una clausola derogatoria rispetto alla durata legale dell’amministratore, a condizione che venga inserita in un regolamento contrattuale. E non mancano, anzi, posizioni che accordano margini ancor più ampi di intervento all’autonomia negoziale in deroga alla disciplina di legge.

Come che sia su questo primo profilo, e procedendo ora all’esame della disciplina dettata dall’art. 1129, comma 10, c.c., mette conto evidenziare che, per legge, la durata dell’incarico dell’amministratore è fissata in un anno.

Il testo normativo contempla però (e in ciò si differenzia dalla disciplina previgente) un particolare meccanismo di rinnovo dell’incarico dell’amministratore per eguale durata.

Si tratta di un meccanismo di rinnovo che gli interpreti (e, del resto, la stessa pronuncia qui in commento) qualificano come “tacito” ovvero “automatico”, in tal modo volendo indicare che esso prescinde da una nuova espressa delibera assembleare di conferma, nonché – ma il punto non è pacifico – da una nuova espressa manifestazione di volontà dell’amministratore.

La previsione di siffatto meccanismo solleva invero plurimi interrogativi.

È anzitutto ampiamente discusso se un tale rinnovo sia destinato a operare solo al termine del primo anno di mandato, e se dunque occorra, alla scadenza del periodo di rinnovo, una espressa delibera assembleare di conferma, in mancanza trovando applicazione il regime di limitata prorogatio di cui all’art. 1129, comma 8, c.c.; o se invece il meccanismo di rinnovo abbia carattere “perpetuo”, e operi indiscriminatamente al termine di ogni scadenza annuale, salvo che intervenga la disdetta.

È altresì controverso se il rinnovo delineato dall’art. 1129, comma 10, c.c. sia da intendere come l’effetto di una tacita manifestazione di volontà negoziale, o se esso piuttosto rappresenti un effetto automatico – di per sé privo di valore negoziale – che scaturisce direttamente dalla legge, a fronte del mero fatto negativo della mancata disdetta.

Qui, ad ogni modo, preme rilevare che, anche a voler configurare il rinnovo quale conseguenza di un automatismo, ciò non consente comunque di ritenere che la durata dell’incarico dell’amministratore sia fissata dal legislatore in due anni (o più): la formulazione della norma impone infatti di riconoscere che l’incarico sia per legge di un anno, con la possibilità – che resta però una mera eventualità – di una sua successiva protrazione, alla scadenza, in virtù del meccanismo per così dire “agevolato” di rinnovo.

Come si è accennato, il rinnovo “tacito” o “automatico” è escluso ove intervenga una contraria manifestazione di volontà da parte dell’assemblea: si parla al riguardo di disdetta (o diniego di rinnovo).

Ora, per poter cogliere la ratio decidendi della pronuncia che qui si commenta, occorre porre a confronto l’istituto della disdetta, appena evocato, con quello – affine, ma al primo non sovrapponibile – della revoca (assembleare).

La revoca consiste nel potere unilaterale, che la legge accorda all’assemblea “in ogni tempo”, di determinare la cessazione dell’amministratore dall’incarico in via anticipata rispetto alla naturale scadenza del mandato gestorio. Come rilevato dalla più attenta dottrina, si tratta, peraltro, a rigore non già propriamente di revoca, ma di un’ipotesi di recesso ex lege, che incide sul rapporto (e non sull’atto di nomina), determinandone la cessazione ex nunc.

Si discute se l’esercizio di tale potere debba essere sorretto da una idonea ragione giustificativa (“giusta causa”). Si discute, in particolare, se alla revoca assembleare dell’amministratore di condominio possa applicarsi la norma dettata in tema di mandato dall’art. 1725, comma 1, c.c., che, per l’ipotesi di mandato oneroso conferito per un tempo determinato, accorda al mandatario il diritto al risarcimento dei danni in caso di revoca ante tempus del mandante non sorretta da una giusta causa.

Come evidenziato dalla pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha dato al quesito risposta positiva, e in tal senso si è espressa anche una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina.

Non mancano peraltro opinioni discordanti, che negano la possibilità di estendere alla materia de qua la richiamata disposizione codicistica. E a tal fine valorizzano il tenore letterale dell’art. 1129, comma 11, c.c., che accorda all’assemblea il potere di revocare l’amministratore “in ogni tempo” senza fissare limite alcuno, in tal modo venendo a delineare – si sostiene – un potere di recesso ad nutum; fanno poi leva sulla pretesa completezza della disciplina normativa (quale risultante dalla novella del 2012) in tema di revoca assembleare, che impedirebbe di ravvisare lacune da colmare per il tramite dell’applicazione (analogica) dell’art. 1725, comma 1, c.c.

Invero, si tratta di rilievi che – può qui incidentalmente osservarsi – non appaiono insuperabili, sol che si consideri, per un verso, la genericità della littera legis; per altro verso che, se è pur vero che la disciplina novellata in tema di revoca dell’amministratore di condominio è assai più articolata rispetto a quella previgente, e regolamenta taluni effetti della revoca medesima, nondimeno essa non appare esaurire tutti i possibili profili dell’istituto, e si presta allora, in virtù dell’espresso rinvio alle norme sul mandato operato dall’art. 1129, comma 15, c.c., a essere integrata da una previsione quale quella di cui all’art. 1725, comma 1, c.c.

In questa sede, ad ogni modo, può essere utile rilevare ulteriormente che (ove si acceda alla tesi che ammette l’applicabilità dell’art. 1725, comma 1, c.c.):

  1. sembra comunque preferibile riconoscere al potere di revoca (rectius, recesso) assembleare carattere immotivato (dunque, di recesso ad nutum): il requisito della giusta causa, infatti, non incide sulla validità o sull’efficacia del recesso – che resta legittimo pur in assenza di essa, perché espressione di un diritto potestativo –, ma attiene al solo profilo risarcitorio;
  2.  proprio perché il recesso è esercizio di un diritto potestativo dell’assemblea, il risarcimento danni sarebbe più correttamente da qualificare come mero indennizzo da atto lecito;
  3. l’oggetto della pretesa risarcitoria (o meglio indennitaria) sarebbe da commisurare al compenso che sarebbe spettato all’amministratore per il periodo residuo di mandato, successivo alla revoca, detratto l’aliunde perceptum vel percipiendum.

Sotto altro profilo, può altresì essere utile rilevare che, secondo l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza, alla revoca dell’amministratore di condominio trova applicazione il disposto di cui all’art. 1724 c.c.: con la conseguenza che la nomina assembleare di un nuovo amministratore importerà, in forma tacita, la revoca del precedente.

Venendo ora a considerare il potere di disdetta, giova evidenziare che anch’esso si configura come potere rimesso alla unilaterale iniziativa dell’assemblea, che impedisce (pro futuro) la prosecuzione del rapporto di amministrazione.

Sennonché, a differenza della revoca – e in ciò si apprezza il principale tratto discretivo tra le due figure –, la disdetta non comporta la caducazione anticipata di un incarico gestorio già in essere. Si limita per converso a impedire il rinnovo di un incarico in scadenza: impedisce, cioè, che l’incarico dell’amministratore venga a essere prolungato – a mezzo di delibera assembleare di conferma ovvero mediante il meccanismo “agevolato” di cui all’art. 1129, comma 10, c.c. – oltre il suo originario e naturale termine finale.

Perché tale effetto impeditivo possa prodursi è peraltro necessario che la delibera assembleare di disdetta sia tempestiva, e dunque che intervenga (e, in quanto atto recettizio, che sia altresì portata a conoscenza dell’amministratore) entro il termine di naturale scadenza dell’incarico.

Qui preme sottolineare che lo statuto normativo della disdetta presenta numerose lacune, e spetta all’interprete il compito di colmarle.

Ora, nell’esercizio di siffatta attività esegetica, si può pure ritenere di estendere alla disdetta taluni profili di disciplina dettati specificamente (o a loro volta desunti in via interpretativa) per la revoca.

E così, si può pure ammettere che anche alla delibera di disdetta si applichi la maggioranza qualificata prevista per la revoca dall’art. 1136, comma 4, c.c.

E, analogamente, si può pure riconoscere che – così come si ammette per la revoca – anche la disdetta possa essere desunta ab implicito dalla nomina di un nuovo amministratore.

Quello che, però, sembra in ogni caso precluso all’interprete è pretendere di applicare alla disdetta la regula juris di cui all’art. 1725, comma 1, c.c. per accordare all’amministratore il risarcimento dei danni (o, meglio, una posta indennitaria) per il mancato, ingiustificato, rinnovo dell’incarico alla scadenza.

Vi ostano le ineliminabili differenze strutturali – quali sopra enucleate – tra la figura della disdetta e quella della revoca.

La disdetta – si è chiarito – non è un recesso da un rapporto in atto. Essa non intacca la durata dell’incarico quale inizialmente fissata; durata che – e possono qui richiamarsi le considerazioni più sopra sviluppate – è per legge di un anno.

Mutuando le parole del Tribunale di Pisa, “l’amministratore non ha un diritto alla durata biennale dell’incarico, al massimo può parlarsi di (mera) aspettativa (di fatto)”: e questa, di per sé, non appare suscettibile di fondare alcuna pretesa risarcitoria (o indennitaria) che sia basata sulla sopravvenuta disdetta non sorretta da una giusta causa.

È questo, in ultima analisi, il nucleo argomentativo centrale della sentenza che si commenta, la quale, muovendo dalla irriducibilità della disdetta rispetto alla revoca, afferma la (generale) non risarcibilità del danno da mancato rinnovo dell’amministratore di condominio.

Due brevi notazioni conclusive.

  • Resta ben inteso che, ove si ritenesse di aderire alla tesi che nega in radice l’applicabilità dell’art. 1725, comma 1, c.c. alla revoca dell’amministratore di condominio, si dovrebbe con più forza ammettere la non estendibilità della norma al caso del mancato rinnovo dell’incarico.
  • La conclusione cui si è sopra pervenuti – di negare in via generale il risarcimento dei danni all’amministratore sol perché non rinnovato – non esclude che egli possa invece vantare un diritto risarcitorio (in senso proprio) ove il diniego di rinnovo opposto dall’assemblea dovesse rivelarsi, in concreto, abusivo. Il riferimento – ma si tratta qui appena di una suggestione – è alla categoria generale dell’abuso del diritto, secondo la ricostruzione di essa offerta dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sez. III, 18.9.2009, n. 20106).