La Corte Suprema di cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 39735 del 14 giugno/2 ottobre 2023, ha affermato che il singolo condomino è legittimato a proporre querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore di condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune.

Nel caso in esame, la Corte di appello di Torino confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Verbania condannava l’ex amministratore di un condominio per il delitto di appropriazione indebita previsto e punito dall’art. 646 c.p.

I giudici di merito accertavano che l’amministratore, durante l’espletamento del suo incarico, si appropriava indebitamente di somme di denaro depositate sul conto corrente condominiale, mediante operazioni di prelievo non giustificate.

L’ex amministratore di condominio proponeva ricorso per cassazione, con il quale deduceva la manifesta illogicità della motivazione contenuta nella pronuncia di condanna resa dalla Corte d’appello.

In primo luogo, il ricorrente lamentava l’invalidità della querela sporta nei suoi confronti, perché all’assemblea condominiale nel corso della quale veniva dato mandato al nuovo amministratore avevano partecipato meno della metà dei condomini, così ignorando “l’univoco orientamento” della giurisprudenza di legittimità secondo il quale per la proposizione di una valida querela occorre la preventiva ed unanime manifestazione di volontà di tutti i condomini.

In ogni caso, il ricorrente sosteneva che la determinazione avente ad oggetto la proposizione di una querela esorbitava dalle attribuzioni dell’assemblea condominiale, legittimata unicamente al conferimento di una delega all’instaurazione di un’azione giudiziaria in sede civile, con conseguente nullità della delibera così assunta.

In secondo luogo, la difesa rimarcava l’insussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla legge ai fini dell’integrazione del delitto di appropriazione indebita, in quanto l’imputato aveva agito nella convinzione di esercitare un diritto proprio, in attuazione di una prassi che consentiva all’amministratore di prelevare le somme a lui spettanti anche se non ancora deliberate in sede di bilancio preventivo.

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ravvisando la manifesta infondatezza della censura relativa alla validità della querela sporta dall’amministratore di condominio in assenza di una preventiva ed unanime manifestazione di volontà dei condomini, ribadendo che “il singolo condomino è legittimato alla proposizione della querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore di condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune”.

Nondimeno, la Corte ha dichiarato inammissibili le censure mosse dal ricorrente in ordine all’insussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di appropriazione indebita, perché volte ad una rilettura degli elementi di fattuali posti a fondamento della decisione impugnata al di fuori dei limiti del giudizio di legittimità.

La pronuncia in commento affronta il tema dell’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio, con particolare riguardo all’individuazione dei soggetti legittimati a proporre querela.

L’appropriazione indebita a danno del patrimonio condominiale: i soggetti legittimati a proporre querela

L’art. 646 c.p. dispone che chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui ha, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito a querela della persona offesa.

La norma in esame è sistematicamente collocata nella parte del codice penale dedicata ai delitti contro il patrimonio mediante frode.

La dottrina formatasi intorno al bene giuridico tutelato dal delitto di appropriazione indebita non è univoca.

Una prima ricostruzione ritiene che il bene giuridico protetto dall’art. 646 c.p. sia rappresentato dal diritto di proprietà.

Un diverso orientamento, invece, ritiene che l’art. 646 c.p. tuteli l’interesse al mantenimento del vincolo di destinazione inizialmente impresso alla cosa.

Aderire all’una o all’altra impostazione determina conseguenze diverse in ordine all’individuazione dei soggetti legittimati a proporre querela per il delitto di appropriazione indebita.

Invero, se si ritiene che il bene giuridico tutelato dall’art. 646 c.p. sia rappresentato dal diritto di proprietà, solo il proprietario della cosa sottratta indebitamente è legittimato a proporre querela.

Al contrario, se si aderisce alla ricostruzione per cui l’art. 646 c.p. tutela il vincolo di destinazione originariamente impresso alla cosa oggetto di appropriazione indebita, ogni soggetto direttamente interessato al mantenimento del vincolo di destinazione originariamente impresso alla res è legittimato a presentare querela.

In ambito condominiale si discute sull’individuazione dei soggetti legittimati a proporre querela in presenza di illeciti penali commessi a danno del patrimonio comune.

Al riguardo, un primo orientamento (richiamato dal ricorrente nel caso in esame) riteneva che per la proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un condominio di edifici occorresse la preventiva ed unanime manifestazione di volontà da parte di tutti i condomini, atta a conferire all’amministratore l’incarico di perseguire penalmente un soggetto in ordine ad un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune.

Una diversa impostazione formatasi nella giurisprudenza di legittimità, ricostruendo l’istituto giuridico del condominio come uno strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini, riteneva che la presentazione di una valida denuncia-querela da parte di un condominio, in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio comune, presupponesse necessariamente il conferimento di uno specifico incarico all’amministratore dell’assemblea condominiale.

I successivi approdi della giurisprudenza civile hanno consentito di superare questi orientamenti, riconoscendo la legittimazione a proporre denuncia-querela per i reati commessi in pregiudizio del patrimonio comune non solo all’amministratore (all’uopo autorizzato dall’assemblea) ma anche a più condomini o ad uno solo di essi.

Il contrasto innanzi delineato è stato recentemente composto anche in sede penale, in quanto la giurisprudenza, pur ravvisando elementi che vanno nella direzione di una sia pur attenuata configurabilità di un processo di entificazione dell’istituto giuridico in esame, ha escluso la personalità giuridica del condominio, in linea con quanto già affermato in precedenza in sede civile.

Per tale motivo, l’orientamento che appare attualmente prevalente in sede penale afferma che il singolo condomino, in quanto titolare del diritto di tutelare le destinazioni d’uso delle parti comuni ex art. 1117 quater c.c., è legittimato, quantomeno in via concorrente o eventualmente surrogatoria con l’amministratore del condominio, alla presentazione di una valida querela, in relazione ad un reato commesso a danno del patrimonio comune del condominio.

Inoltre, con particolare riferimento ai reati commessi in pregiudizio della regolare fruizione dei servizi comuni dell’edificio, la legittimazione a querelare è riconosciuta al singolo condomino a prescindere dal rilascio di un’autorizzazione o di una ratifica preventiva dell’assemblea, in ragione della detenzione qualificata che il condomino stesso ha rispetto alle risorse economiche del condominio e della necessità di assicurare il corretto espletamento dei servizi comuni.

La Suprema Corte di cassazione, dunque, nei suoi più recenti approdi riconosce pacificamente la legittimazione del singolo condomino a querelare l’amministratore di condominio per il reato di appropriazione indebita commesso a danno del patrimonio comune, soprattutto quando l’amministratore medesimo abbia nel tempo commesso una serie di condotte appropriative, accompagnate dalla formazione di falsi documenti, volte a generare una falsa rappresentazione della realtà, atta a giustificare indebiti prelievi sul conto corrente condominiale (come accertato nella fattispecie in commento).

La “prassi condominiale” come elemento non idoneo ad escludere l’elemento soggettivo del delitto di appropriazione indebita

Presupposto per l’applicazione dell’art. 646 c.p. è che il soggetto attivo del reato abbia “a qualsiasi titolo il possesso” del denaro o della cosa mobile altrui.

In materia penale si è discusso se la nozione di possesso a cui fa riferimento l’art. 646 c.p. vada mutuata dalla disciplina civilistica o se, invece, possa essere elaborata un’autonoma nozione penale del concetto di possesso.

Al riguardo, la dottrina e la giurisprudenza attualmente prevalenti adottano una nozione autonoma del concetto di possesso in materia penale, ritenendo che il possesso rilevante per la configurabilità del delitto di appropriazione indebita non si esaurisce nel “potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale” (art. 1140, comma 1, c.c.), ma ricomprende anche i diritti personali di godimento e talune ipotesi di detenzione, a condizione che il potere di fatto sulla cosa sia accompagnato dall’animus rem sibi habendi, ossia dalla consapevolezza di tenere la cosa presso di sé.

Sul piano oggettivo, dunque, ai fini dell’integrazione dell’art. 646 c.p. è necessaria la cosiddetta interversione del possesso: l’amministratore di condominio deve comportarsi nei confronti del denaro o della cosa mobile altrui uti dominus, cioè come se ne fosse il proprietario, travalicando le facoltà di disposizione del bene a lui consentite dal titolo in base al quale possiede la cosa comune.

Forme sintomatiche della manifestazione di un siffatto animus sono rappresentate dall’alienazione, dalla ritenzione e dalla distrazione della cosa comune su cui il soggetto attivo del reato esercita il suo potere di fatto.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, l’art. 646 c.p. richiede il dolo dell’agente, ossia la coscienza e volontà di appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, posseduta a qualsiasi titolo, sapendo di agire senza averne il diritto ed allo scopo di trarre per sé o per altri un ingiusto profitto, una qualsiasi illegittima utilità, anche di natura non patrimoniale.

In tale ottica, nell’ambito di un complesso edilizio può sorgere il problema relativo alla configurabilità dell’ingiusto profitto evocato dall’art. 646 c.p. nelle ipotesi in cui l’amministratore agisce in forza di una prassi condominiale.

Nella fattispecie in commento, infatti, l’amministratore di condominio chiedeva alla Suprema Corte di accertare l’insussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di appropriazione indebita delle somme di denaro dal primo prelevate sul conto corrente comune perché l’operazione di prelievo era stata effettuata in forza di una “prassi condominiale”, in virtù della quale l’amministratore era legittimato a prelevare le somme a lui spettanti anche se non ancora deliberate in sede di bilancio preventivo.

In particolare, l’imputato lamentava di aver agito nella convinzione di esercitare un diritto proprio, asseritamente riconosciuto da una “prassi condominiale”, con conseguente impossibilità di configurare a suo carico la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita.

La Suprema Corte non ha esaminato le doglianze suddette, in quanto reiterative delle censure già espresse in sede di appello e preposte ad una rilettura degli elementi di fatto al di fuori dei limiti del giudizio di legittimità.

Pertanto, resta aperto il tema relativo alla possibilità o meno di riconoscere efficacia scusante alla “prassi condominiale”, così da escludere la configurabilità del delitto di appropriazione indebita imputato all’amministratore di condominio per assenza dell’elemento soggettivo del reato.

In altri termini, la questione attiene alla possibilità di considerare la “prassi condominiale” come causa di esclusione della colpevolezza nelle ipotesi in cui l’amministratore di condominio si appropria delle somme a lui spettanti nella convinzione di esercitare un diritto a lui riconosciuto da una prassi applicativa.

In assenza di una definizione legislativa del concetto di “prassi condominiale” possono ritenersi tali le regole di comportamento non espressamente regolate dalla legge o dalla volontà dei condomini, ma comunque seguite nell’ambito di un complesso edilizio.

La prassi condominiale, dunque, può considerarsi una fonte fattuale assistita dall’elemento della diuturnitas, della ripetizione nel tempo di un determinato comportamento non regolato dalla legge e dalla volontà dei condomini, ma priva del carattere dell’opinio iuris ac necessitatis, della cogenza o della vincolatività di una siffatta condotta in ambito condominiale.

In tale contesto, sebbene nell’ambito di un condominio edilizio possano concretamente delinearsi delle prassi, delle regole di comportamento che individuano “ciò che normalmente accade”, le stesse non possono mai derogare ne porsi in contrasto con la legge o con quanto previsto dalla volontà dei condomini. Sicché la convinzione che l’amministratore può avere circa la legittimità di un comportamento conforme alla prassi, ma contrario alla legge o alla volontà condominiale, non può assumere valenza scusante, non può determinare l’assenza dell’elemento soggettivo del reato quando l’amministratore di condominio con la sua condotta integra una fattispecie di reato.

Invero, il contratto tipico di amministrazione di condominio è riconducibile ad un rapporto di mandato presumibilmente oneroso, nell’ambito del quale il diritto del mandatario al compenso e al rimborso delle anticipazioni e delle spese sostenute è condizionato alla presentazione, da parte del mandante, del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale.

Inoltre, le specifiche norme dettate in materia di condominio prevedono che l’assemblea è l’organo esclusivamente competente alla previsione e ratifica delle spese condominiali, per cui in mancanza di un rendiconto approvato il credito dell’amministratore non può ritenersi né liquido né esigibile.

Per tali motivi, il comportamento assunto dall’amministratore di condominio in conformità di una “prassi condominiale” – in forza della quale l’amministratore è legittimato a prelevare dal conto corrente comune le somme a lui spettanti anche se non ancora deliberate – che contrasta con il descritto sistema giuridico, atto a regolare i rapporti condominiali, non appare idonea a riconoscere efficacia scusante alla condotta posta in essere dall’amministratore medesimo, sì da escludere la configurabilità a suo carico del delitto di appropriazione indebita per assenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 646 c.p.